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Gli articoli della redazione Radio FSC

Lunedì e Simmetrie

18/4/2022

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di Maria Antonietta Bruscella
Mi sono sempre impegnata ad avere una scrittura che fosse ordinata, mi ci dedicavo e mi dedico con cura ancora adesso, con una cura tale che, alla fine, ci impiego il doppio del tempo, o meglio, ci impiegavo, perché ormai sono diventata veloce anche con la calligrafia imposta.
Eppure, per quanto io mi sforzi di scrivere bene, se ho bisogno di appuntarmi una cosa al volo, se vado di fretta, se non riesco a stare al passo mentre prendo appunti, la mia vera natura, o meglio, la mia vera scrittura, salta fuori.
La cosa che mi fa, però, più ridere è mettere a confronto due pagine, scritte dallo stesso pugno, come due metà speculari, che di simmetrico non hanno nulla, a parte le righe del foglio, s’intende. Sembrano scritte da due persone diverse, eppure io sono sempre la stessa. La calligrafia, l’ossessione per la bella scrittura, è una di quelle cose che mi porto dietro fin da quando sono bambina, è una di quelle cose che mi porto dietro perché una che è nata il 25 agosto, sotto il segno zodiacale della vergine, non può scrivere male, non può essere disordinata, perché quelli del segno della vergine sono dei maniaci dell’ordine e della precisione, delle persone estremamente razionali, pacate, che guardano il mondo con occhi lucidi.
Io mi guardo allo specchio e, nella simmetria di un pezzo di vetro, vedo tutto fuorché ordine, precisione, razionalità e mi domando com’è che sono nata sotto questo segno zodiacale se non mi ci rivedo neanche un po’. Eppure, una cosa me la riconosco: uno spirito, anzi, una tensione al sacrificio, al sacrificio di essere come la società ha detto che dovevo essere, ovvero ordinata, razionale, precisa. E, allora, è così che a sei anni io mi sforzavo di scrivere bene, a 15 anni di tracciare circonferenze a mano libera manco fossi Giotto e a 25 anni di ordinare, con una cadenza quotidiana, l’armadio dei miei vestiti. Dio mio, che disastro.
Quando apro l’armadio, lì dentro ci ritrovo gli esiti di un bombardamento ad Hiroshima, io mi ricordo chi sono, chi sono veramente. Il mio armadio è la simmetria della mia testa, anzi no, della mia natura, non affatto speculare al segno zodiacale della vergine, quella storta, incoerente, confusionaria e incasinata.
Per fortuna, l’armadio si chiude e le simmetrie dell’apparenza tornano in ordine, fin quando non lo riapro di nuovo.
Le simmetrie, le inseguo da una vita, ma non mi sono mai riuscite: impegno massimo, risultato pessimo.
Non so resistere alle cose simmetriche, due metà identiche di una mela, una foto perfettamente in linea con l’orizzonte, i maglioni ordinati per colore e dimensione, in ordine decrescente. E ho capito che non posso farmene una colpa, continuerò a fare foto storte anche se uso tutti gli accorgimenti del caso, le guarderò, mi innervosirò perché la mia convinzione di aver fatto un buon lavoro sarà andata in frantumi e poi già so come reagirò: espressione di disgusto mista a rassegnazione, telefono in tasca e un sereno “vabbè ci sono gli altri che fanno le foto, tanto io su
Instagram non pubblico, mi godo il panorama”.
E, tra questo pensiero consolatorio e una galleria piena di immagini che non conoscono prospettiva, mi chiedo perché siamo così tanto ossessionati dalle simmetrie. Dalle simmetrie della vita: vogliamo sempre che le cose vadano secondo i nostri piani, secondo una linea precisa che non conosce curve, strane deviazioni e brusche interruzioni. Ma la vita non è fatta di simmetrie, la vita è imprevisti, è come non volevi che andasse e invece ti presenta il conto, senza resto e con il portafogli pure vuoto. Ci ostiniamo a tracciare bisettrici, metà perfettamente esatte e puntualmente le simmetrie dei nostri pensieri fanno a cazzotti con la vita vera. E allora basta, basta provare a far combaciare tutto secondo i nostri piani, che tanto la vita ti sorprende sempre e non ci sono teoremi geometrici che tengano. E quindi che fai? La prendi come viene, con le simmetrie messe da parte nel cassetto, con la consapevolezza che tra il volere e la realtà non ci passa una linea retta, ma una curva di imprevisti che non puoi che accettare. E il giorno dopo? Ti svegli, provi a mettere ordine in quell’armadio di simmetrie di vorrei e, finalmente, prendi in mano la tua vita, che in fondo le simmetrie, lo sai anche tu, non ti sono mai piaciute.
Ore 07:30, la sveglia. E già che ci sia una sveglia, la dice lunga, perché? Beh, vuol dire che il weekend è (di nuovo) solo un lontano ricordo. Ore 07:35, dopo il caffè doppio,  che oggi era più amaro del solito, sarà colpa del lunedì, guardi fuori nella speranza che almeno ci sia il sole (per i meteoropatici l’assenza di sole il lunedì è peggio di un analcolico il sabato sera). Ore 07:50, trascinando i piedi, provi a dare un senso lavorativo ad una giornata che avresti preferito passare a letto. Ma mica te la puoi prendere con il mondo, in fondo, è solo lunedì, cioè, il lunedì ha un protocollo di giornata di merda da rispettare, un protocollo ben rodato, aggiungerei.
Il lunedì è quel giorno della settimana in cui tutto sembra più difficile, in cui ognuno di noi si sente un po’ come Sisifo alle pendici della montagna troppo alta da scalare, in cui non ce n’è una che va per il verso giusto, il lunedì è quel giorno in cui, probabilmente, milioni di persone imprecanti un “è proprio lunedì”, gli attribuiscono l’origine di errori e imprevisti capitati. Bell’effetto placebo, sicuramente più valido di una Tachipirina 500 che, purtroppo, è efficace solo per la tosse, sì, quella vera, non quella dei tuoi pensieri.
"Ci vorrebbe una domenica pomeriggio per ogni lunedì che non ho saputo iniziare", qualcuno cantava, molti condividevano, pochi dissentivano. Io faccio parte di quei pochi. Io penso che ci vorrebbe un lunedì mattina per ogni domenica che non ho saputo apprezzare. Non la capisco questa esigenza della nostra società di demonizzare il lunedì, di vivere la domenica non perché si vuole viverla, ma solo perché il giorno dopo è lunedì.
Vi svelo un segreto: quell’illusione che tanto ci piace, quella del weekend stand-by, dove tutto fila liscio, dove le sveglie non sono puntate e i problemi non esistono, è solo un’illusione. Stand-by, vuol dire sospendere, mica risolvere: il lunedì è lì pronto che ti aspetta, con il conto in sospeso della settimana prima, tutti in fila.
Ma perché ci ostiniamo contro il lunedì? Perché tutti con sta storia che la domenica è sempre una splendida giornata, che “ah, t’immagini se fosse sempre domenica”, “eh la domenica non arrivano le mail”? Io la domenica non la sopporto. Mi sembra di andare alla fiera dell’ipocrisia, quella del va tutto bene, ma solo fuori, dentro no.
E vi dico una cosa, anzi, la urlo a gran voce: il lunedì è il giorno per ricominciare. L’avete mai pensato così il lunedì?
Il lunedì è l’inizio, il lunedì è la vita che nasce, il lunedì è il tempo di risorgere, di affrontare, di scalare quella montagna di problemi che, se va male, stai tranquillo, c’è un altro lunedì. Per me il lunedì ha un retrogusto di vita non vissuta, ma da vivere, per me il lunedì è il giorno in cui l’araba fenice risorge dalle ceneri e ce la mette tutta. E allora, anziché ritardare la sveglia, questo lunedì, alzatevi dal letto, allacciatevi le scarpe e uscite fuori ad affrontare il mondo, perché, anche se il
sole non ci sarà, il lunedì mattina saprà sempre un po’ di libertà.
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Ricordando Sarajevo

15/4/2022

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di Laura Sicilia

Foto
Sarajevo sotto assedio è la storia di un cane che gironzola fra i palazzi distrutti, di un uomo che cammina fra i ruderi di un treno, di un ragazzo che rovista fra i rifiuti cercando di accaparrarsi un po' di cibo, di un ospedale pieno di feriti. Ma è anche il calore di una domenica estiva passata fra le rive del fiume Milijaka, di due anziani che si abbracciano, di una festa per la riapertura di un giornale. I volti prosciugati e segnati dalla difficile scelta di rimanere nel proprio paese vedendolo sgretolarsi giorno dopo giorno.

Fotogrammi di vita, di questa straordinaria macchina che continua anche sotto i bombardamenti. La quotidianità che cerca di farsi largo fra violenza e crudeltà, fra il freddo e la fame durante il più lungo assedio della storia del XX secolo.

E forse è proprio questo il palliativo al dolore: attimi di normalità mentre si alza il volume della radio per non sentire il rumore delle bombe, mentre si va al mercato a fare la spesa sotto il tiro dei cecchini, dei fiori che crescono attorno alle macerie, del sorriso di un bambino che continua a giocare per strada mentre accanto passano i carri armati. Continuare ad essere umani durante un evento talmente disumano come la guerra.

​E allora uno scatto in bianco e nero potrà colorizzarsi, iniziando dal rosso, il colore dei papaveri. 

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